lunedì 3 novembre 2014

Fallo, oggi! Storie di una Uaina on strike!

Care amiche lettrici. Anzi,Care Abbonate.
Non siete abbonate? Abbonatevi… è aggratis!

Care aggratis,
in questi anni ne abbiamo passate tante insieme. Abbiamo superato tanti ostacoli, tanti sì e no. Tanti forse. Abbiamo sviscerato i temi fondamentali che interessano la vita di una donna. Ad esempio in “bambino 0- 3 anni non stolkarmi” abbiamo affrontato il tema della maternità (discusso e analizzato si sa cit.), in “falsare il falsabile” abbiamo introdotto una nuova para nella già fornitissima lista donataci dai pubblicitari, in “tette sotto i gatti” abbiamo parlato di abusi e sì, abbiamo parlato anche di questioni da “una botta e via”, oh sempre metaforica eh. Ci mancherebbe.

Ecco, care amiche metaforiche. È arrivato il momento di parlare di quel periodo che state attraversando. Quello in cui avete deciso di stare sole perché volete ritrovare voi stesse e comprendere meglio i vostri tarli mentali per poter finalmente riuscire a superare voi stesse e fare le capriole mentre avete il ciclo. Si dai… quel momento in cui nessuno vi va bene perché….

Troppo basso
Troppo stolto
Troppo intellettuale
Troppo di sinistra, Troppo di destra, In ogni caso troppo convinto
Troppo poco convinto
Troppo friulano
Troppo triste
Troppo allegro
Troppo interessato
Troppo poco interessato

Troppo… che smeno non ho voglia di stare con nessuno!

Ecco amiche, perché rimandare? Fallo, oggi! è aggratis. Che poi te ne pen-ti.

Fallo, oggi! è la rivista aggratis per voi che non vorreste più procrastinare, perché Fallo, oggi! più che una rivista è un consiglio da amica. Per l’amica che non deve procrastinare mai. Per cui, Amiche, dite no all’imperterrito procrastinaggio, Fallo, oggi! siate produttive. Oddio, produttive… produttive dipende… Più.. più… più assertive. Più pro-pizie… pro-pen-se. Più pro pen…e Punto.

E invece no, amiche. Lo sappiamo che siete nella rivergination più totale. Che siete quel tipo di donna romantica tanto in disuso (è proprio il caso di dirlo). Che siete, quel tipo di donne che si aggirano da sole e vengono amaramente abbordate da anziani signori negli stessi supermercati in cui lavoravano da universitarie. Ve li ricordate? Quelli di  “Depressione Post Laurea”, loro…. si aggirano ancora indisturbati abbordando donzelle.

Il tempo delle mele. Una storia vera.
Vecchietto sgaio: queste mele non sanno di niente! Le ho prese la scorsa settimana e non sanno di niente. Perché le sembra normale che in natura un melo faccia al massimo 11 kg di mele e loro gliene fanno fare 16kg?!
Causticissima: Eh infatti…
Vecchietto sgaio: e poi ci sono mille qualità. Una volta ce n’era una ma non sapeva di acqua come queste…

(segue deontologia della mela integerrima)

Causticissima (sgaia pure idda): Eh ha ragione, ma sa io mi ricordo di Lei. Io una volta lavoravo qui, alle casse. Lei era quello che chiedeva sempre se era questa la cassa in cui non si pagava, diceva, “mi hanno detto di là che era lei!”
Il vecchietto sgaio ride compiaciuto di se stesso e ora, smascherato, si lancia.
Vecchietto sgaio: Ah si ricorda! Sì, sì sono io. Ma lei quanti anni ha? 19? 21?
Adulatore
Causticissima: eh, a breve 27.
Vecchietto sgaio: ah ed è sposata?
Causticissima: no no, si figuri! sa che adesso ci si sposa da vecchi.
Vecchietto insistente: ma avrà il moroso…
Causticissima: eh no.
Vecchietto spudorato: ma almeno farà l’amore…
Causti-momenti-di-imbarazzo
Vecchietto spudorato, l’insistenza: voglio dire… se non lo fa adesso che è giovane quando lo deve fare?!

Ecco, care amiche abbordate da vecchietti e tanti altri aneddoti che è meglio non tirare fuori. Non vi viene in mente qualcosa? Era il ‘94, era sempre il ‘94, che ci si deve fare. Probabilmente era aggratis. Era il ‘94 e voi giocavate con LaNodre agli indiani e il vostro nome da indiana era Uaina secca (fagiolino asciutto, nel senso di magro, o no?) più che un nome un presagio, una condanna… ma voi….

Dite basta a queste associazioni mentali malate.
Dite basta al ‘94, anche se è aggratis.
Dite basta al Uaina on strike, allo sciopero della uaina.
Dite basta ai monologhi, soprattutto ai monologhi della uaina.

Fallo, oggi!
Ricordate …Fallo, oggi! più che una rivista è un consiglio da amica.
Fallo, oggi! lo trovate in tutte le edicole ogni lunedì, e per le prime 100 chiamate, in regalo il pamphlet de i monologhi della uaina - tutte le cose che avreste voluto sapere da una uaina friulana e non avete mai avuto mai il coraggio di chiedere.

Ed è aggratis. Chevvelodicoaffare.
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Oh, me lo ha detto un’amica eh.




Nota Benissimo: astenersi stalker, personaggi ambigui e ammiratori della uaina. Si scrive tanto per fare quattro risate!

domenica 26 ottobre 2014

CHIAMARE È UMANO. Astenersi facili battute


 Parlare, discorrere, più semplicemente comunicare. In una parola: confrontarsi. Quello che ogni giorno facciamo alzando la cornetta, sorretti da un ormai vetusto modo di dire, è confrontarci. Confrontarci su quello che pensiamo, su quello che abbiamo fatto durante la giornata, su quello che dobbiamo comprare per cena. Un continuo confronto. Un confronto persino sul confronto. Una serie infinita di conversazioni riportate da un orecchio all’altro. Da bocca ad orecchio ad orecchio a bocca. Lo spazio di una telefonata. Il tempo di un saluto. Ma con chi? Prima con chi e come ci confrontavamo?

Dall’invenzione del telefono non sono passati nemmeno due secoli e il creatore del fantomatico apparecchio è ancora oggetto del contendere. Stati Uniti e Italia cercano di tenersi stretta la paternità dell’invenzione che ha irrimediabilmente variato il modo di relazionarsi. Lento ed inarrestabile come l’acqua che scava nella roccia, il telefono e tutti gli annessi e, è proprio il caso di dirlo, i connessi, si sono impossessati delle relazioni umane. Hanno tratto le loro fila di rame per togliere ciò che di umano c’è in una relazione. Si è diventati voci. Voci soliste. Voci umane.

La Voix humaine (voce umana) di Jean Cocteau, grande monologo teatrale, ci ha dato un piccolo assaggio di quanto avrebbe potuto diventare importante il telefono nella nostre vite. “Ti sento lontano. C’è un sacco di gente sulla nostra linea.” Diceva la protagonista, già assillata dall’attesa di una chiamata costantemente interrotta. Un interlocutore perennemente assente aldilà del filo. Alice al di là dello specchio. Una voce, un soffio. È parnassiana la scuola dei telefonisti, quasi immaginifica. Nella nostra società dell’immagine, vi è una sottile linea che divide il rapporto  fra reale ed irreale. L’immagine, a suo modo, è diventata la sostanza del rapporto, eppure, anche la voce mantiene un suo etereo modo di essere pragmatica: il qui ed ora. L’interlocutore perennemente assente aldilà del filo è soprattutto perennemente assente in scena. Cocteau ce lo presenta in un monologo in cui, chi muove le fila del discorso è un Altro, con la A maiuscola, non ben definito. Noi, nella scena non sentiamo cosa sussurra all’orecchio della protagonista eppure lo intuiamo. Costruiamo dentro di noi l’interlocutore che più ci aggrada, l’interlocutore è un libro di cui possiamo fantasticare gli spazi della storia. Forse è questo il regalo: l’intuizione.

Poi Cocteau ci regala un’altra perla, la conversazione in scena diventa ciò che spesso è una chiamata lo scambio delle banalità. I due si chiedono a vicenda come sono vestiti, cosa stanno facendo e chi sta in scena, tronfia della sua azzeccata descrizione,  dichiara “si vede che ho gli occhi al posto delle orecchie”. Ed eccoci qui. Nel fulcro del problema.

Lo spazio dell’immaginazione  in una telefonata.

L’immaginazione, prima di tutto, è il momento fondamentale della relazione umana e del sentire l’altro. La concretezza nelle relazioni è infatti un sentore, una percezione, un’elaborazione dell’altro secondo una serie di esperienze nostre. È il mettersi nei panni degli altri con il nostro bagaglio esperienziale. La difficoltà è  affrontare una relazione, di qualsiasi genere, riuscendo a risultare scevri del nostro vissuto pur continuando ad utilizzarlo per poter capire l’altro. Niente di più difficile.

Ma l’immaginazione è anche il fulcro dell’essere umano che si autorealizza. È il fulcro della domanda che decine di generazioni umane si sono posti: come rendere concreto quello che di reale non ha ancora nulla? Semplice, comunicarlo. Infatti, fin dalla notte dei tempi l’uomo ha sentito il bisogno di lasciare ai posteri le sue conoscenze e come primo atto di altruismo ha dipinto. Dopo aver dipinto ha inciso. L’essere umano ha cominciato rappresentando il suo mondo tramite piccoli disegni e graffiti, che oggi definiamo, “arte rupestre”. Questo iniziale metodo di comunicare ci ha dato la possibilità di percepire come vivevano gli uomini di migliaia di anni fa. Insomma, quello che per noi è arte è prima di tutto comunicazione.

Poi però l’uomo ha voluto diventare più preciso nella sua espressione ed ha inventato la scrittura. È riuscito nell’ardua impresa di tradurre i suoni in simboli che poi diventeranno parole. Dapprima i simboli erano grossolani e descrivevano atti della vita quotidiana, poi i sentimenti che solo infine sono diventati parole composte da altrettanti simboli. La codifica dei suoni in parole e delle parole in sentimenti ha reso l’uomo forte due volte: può comunicare adesso e può comunicare in futuro. Si è reso potenzialmente eterno. Il desiderio di lasciare qualcosa per gli altri, anche se probabilmente dettato da spinte di egocentrismo, ha dato la possibilità ai posteri di conoscere ed evolvere. Ha reso disponibile la conoscenza e l’ha distribuita a chi era in grado di comprenderla. In passato sicuramente il problema era poter far parte della rose di persone che sapeva leggere, oggi il problema è il supporto sul quale viene lasciato il messaggio. Ieri erano le tavolette di pietra, poi le tavolette di argilla, i papiri, la carta, oggi il computer, l’hardware e domani? Come potrà essere eterno il nostro messaggio se il supporto non sarà più compatibile?

Ma la spinta che l’essere umano ha avuto nel voler modificare costantemente il modo di comunicare non è sempre stata dettata dalla desiderio di lasciare traccia di sé. A volte aveva semplicemente bisogno di parlare, magari con persone lontane. Il primo metodo per parlare con le persone distanti è stato il messaggio scritto che ha creato un grandissimo business: la posta. Tramite le lettere ci si è chiariti, si sono create incomprensioni, si sono create attese. Gli uomini hanno aspettato giorni, mesi, forse anni per una sola lettera, una notizia. Ma l’attesa, anche se poetica a volte uccide e crea intorno a sè troppe variabili che la mente non riesce a gestire. È proprio la mancata volontà di attendere, che ci dona il progresso tecnologico: il telegrafo, il telefono, internet, la posta elettronica, il telefonino, l’instant messaging.

Oggi non si chiama. Oggi si chatta. Ci si scambia dei messaggi su diversi supporti, dall’ormai classica chat, a twitter e whatsApp. Siamo diventati muti. Una società di muti; ormai senza voce abbiamo creato una società liquida di muti. La società liquida descritta da Zygmunt Bauman dove ogni carattere della vita umana viene continuamente ridefinito e dove niente è più statico. Le relazioni cambiano e, come un liquido, mutano al variare del contenitore in cui si riversano. Così come la comunicazione. E nella società liquida il messaggio continuo ha generato l’onnipresente assenza e infatti Bauman ci dice:

Non perdi mai di vista il tuo cellulare. La tua tuta da jogging è dotata di una tasca speciale per il cellulare, e  non lasceresti mai quella tasca vuota così come non andresti mai a correre senza le tue scarpette. Di fatto, senza il cellulare non andresti da nessuna parte (<< nessuna parte>> è di fatto lo spazio senza cellulare, oppure con un cellulare fuori campo o con la batteria scarica). E una volta che hai il cellulare al tuo fianco non sei mai fuori o via. Sei sempre dentro – mai però bloccato in un singolo posto. Avvolto in una fitta rete di chiamate e messaggi, sei invulnerabile. Chi ti sta intorno non può estrometterti da nulla, e qualora ci provasse, non cambierebbe nulla di veramente importante.”

Quello che veramente manca all’instant messaging è un luogo da condividere, seppur virtuale. A volte scrivere non basta, bisogna essere presenti per esserci davvero. E allora quale modo migliore per concretizzare? L’immagine. Nel percorso esattamente inverso dei film, prima muti e solo in seguito supportati con l’audio, il telefono ha subito un percorso altalenante ed ha cambiato desinenza: tele-grafo, tele-fono, tele-fonino. Dalla scrittura, all’audio all’instant massaging. Ma all’uomo, costantemente insoddisfatto, non basta, e alla mancanza di uno spazio da condividere risponde con la possibilità di vedersi. Il nuovo problema è un vecchissimo problema: la distanza. La distanza fra le persone, le conversazioni, i confronti. Quello che prima si riusciva a risolvere con una “semplice” lettera, con il dovere di scriverla, la decisione di spedirla ed i calcoli di quando sarebbe arrivata; oggi si risolve in un modo del tutto nuovo.

Quando il problema della distanza si è ripresentato, Skype l’ha colmata. Ci ha riportati faccia a faccia con la realtà, seppur virtuale. Ha creato uno spazio da condividere quasi eliminando quello fisico che ci separa. E allora con Skype possiamo fare colloqui di lavoro, parlare con il nostro innamorato, rivedere parenti ormai lontani, prendere lezioni private di qualsiasi genere.

Skype è la risposta alla lontananza. È la possibilità di vedere. È la luce in fondo alla platonica caverna. È una sagoma. È un palliativo. Un modo per combattere la solitudine.

Sul sito, appunto, Skype così si autodescrive:
“Skype è un software che consente di parlare in tutto il mondo. Milioni di persone e aziende usano Skype per chiamare, videochiamare, inviare messaggi istantanei e condividere file gratuitamente con altri utenti Skype. Puoi utilizzare Skype per tutte le tue esigenze: sul tuo telefono cellulare, sul computer oppure sulla TV abilitata per Skype. Puoi scaricare Skype gratuitamente e, inoltre, è facile da utilizzare.
Con una spesa minima puoi ottenere di più: puoi chiamare i telefoni fissi e cellulari, accedere WiFi, inviare SMS ed effettuare videochiamate di gruppo. Puoi pagare a consumo oppure acquistare un abbonamento, scegli ciò che meglio si adatta alle tue esigenze. E nel mondo aziendale, ciò significa che puoi unire il tuo intero ecosistema di colleghi, partner e clienti lavorando in modo efficiente.”
Skype quindi è, e si autodefinisce, una meravigliosa scatola gratuita e quindi democratica, che convoglia in sé tutti i mondi della comunicazione odierna, la cui regina è la chiamata. Chiamare è umano. Chiamare è l’unico modo che alcune persone hanno di sentirsi un po’ meno, passatemi il termine, onnipresentemente assenti.

Ecco, prima di concludere questo breve excursus sull’evoluzione delle relazioni umane è bene fare un passo indietro, fondamentale per poter capire cosa rappresenta per noi oggi Skype.  Dobbiamo tornare al primo modo che l’uomo ha scelto per comunicare: l’arte. L’arte non è sparita, il suo modo di comunicare è solo diventato più astratto. L’arte, oggi è relazione. È lo specchio. Marina Abramović in The artist is present, ce lo dimostra con un’idea semplice al limite dell’esperimento sociale. Un quadrato di pavimento delimitato da pochi centimetri di nastro adesivo, un tavolo in legno di ridotte dimensioni, due sedie agli estremi e l’artista. Fissa, immobile, cerulea per ore accoglie l’altro, il visitatore all’altro capo della sedia. Gli dedica qualche minuto della sua vita e lo osserva. Ad ognuno regala uno sguardo nuovo, prima di passare al prossimo visitatore si neutralizza. Chiude gli occhi e si prepara al nuovo e poi torna, distaccata ma non distratta, attenta ma non partecipe, la sua è una nuova osservazione partecipante. Una dopo l’altra la fila di persone che aspettano di essere parte dell’opera d’arte, si confrontano silenziosamente con l’artista. Cosa succederà? Quale reazione avrà la Abramović? Niente, non succede niente. Mesi di esercizio per poter stare ore senza nutrirsi, senza assurgere alle proprie funzioni corporali, riuscendo a mantenere ferma l’immagine di sé agli altri. Ed infatti sono gli altri a cambiare, mai l’artista. L’artista è presente e ci comunica quello che noi vogliamo che ci comunichi. Alcuni ridono, alcuni scrutano, alcuni piangono è tutto dentro di loro. Una proiezione dell’IO sull’artista che si mette fisicamente a disposizione. Non è più solo dipinto, graffito, tavoletta, monolite, ideogramma o parola, semplicemente è. L’artista è a disposizione di chiunque decida di sedersi di fronte a lei.

Poi accade l’inaspettato. Arriva un uomo ma non uno qualunque, arriva Ulay. Il grande amore di Marina, il compagno di vita e di lavoro di anni. Non si vedono dal 1988 ed è il 2010. Per separarsi e concludere un percorso artistico e personale, hanno percorso la muraglia cinese, ma non insieme, separati. Uno è partito dal deserto del Gobi e l’altra dal Mar Giallo ed allo stesso tempo hanno percorso a piedi la muraglia cinese per potersi dire addio alla fine di questo lungo viaggio. Un percorso simbolico di quelle che sono due energie estremamente diverse, il femminile ed il maschile, che si ritrovano dopo migliaia di chilometri con il solo intento di stringersi in un ultimo abbraccio e separarsi. Ma quel giorno, al Moma di New  York, lui prende il posto dell’Altro, il famoso altro con la A maiuscola e si siede di fronte all’artista. Due artisti a confronto. Lei, torna dal suo annullarsi per il prossimo spettatore e alla vista timidamente sorride, deglutisce l’amaro boccone, poi ne sente l’agrodolce nostalgia e si scioglie in un pianto di commozione. È qui che accade ciò che non ci si aspettava: Marina lentamente si protende verso Ulay e così fa lui. Di nuovo, dopo 22 anni, si incontrano in un percorso uguale e contrario per finalmente stringersi le mani. Il pubblico del Moma di New York accompagna la scena con uno scroscio di applausi.

Può sembrare che la storia di Marina e Ulay non ci riguardi ma non è così. Loro si sono incontrati dopo tanti anni davanti ad un tavolino di legno, noi ci incontriamo su Skype. Siamo però consapevoli che non ci soddisferà ancora a lungo e in poco tempo troveremo altri modi di relazionarci. Siamo consapevoli che quel tavolino di legno non ci basta. Skype ha accorciato le lontananze ma non le ha eliminate, anche se in quel “noi” di una videochiamata c’è sempre meno distanza.

La lontananza sai è come il vento” diceva Modugno ma per noi la lontananza è quello che ci ha gridato Marina Abramović nel suo silenzio seduta su di una sedia al Moma. Per noi è uno schermo in cui vediamo sia la nostra che l’immagine dell’interlocutore che la Voix humaine celava. Per noi Skype è un’altra risposta ad un problema, non la soluzione.  

Dovremmo trovare il coraggio di protenderci verso il nostro Ulay o l’Altro con la A maiuscola, solo allora l’avremmo trovata e solo allora, anche noi, sentiremo l’applauso.



martedì 7 ottobre 2014

LA MALINC-UDINE

La malinc-udine è l’influenza friulana.  In tutti i sensi.

Non è una malattia rara, anzi, è diffusissima. È un po’ come il mal di testa che prima o poi ce l’hai e non sai bene da dove venga. È quel terribile senso di pesantezza che ti viene quando perdi un amico perché si trasferisce. Perché in Italia non c’è lavoro, perché il capo è stronzo o ti pagano troppo poco e non sai come mandare avanti la baracca. E se ne va il 1° e il 2° e la 3° e una serie infinita di numeri ordinali.

È la valigia di cartone degli inizi 900 quando non c’era da mangiare e si partiva per l’Australia... solo che stavolta c'hai dentro un dottorato e l'iPad. È quel macigno che ti pressa all’ennesima dipartita perché sai che in amore vince chi fugge e tu rimani. Sempre.

La malinc-udine è l’amore da lontano che hai letto in “più lontana della luna” che, diciamolo, sei anche un po’ stufa di dover subire.

-          - Oh tanto c’è skype-
-          - Oh tanto c’è whatsapp-

L’amore da lontano è un’amica che parte e vedi due volte all’anno e quando sta un mese in Italia ti senti la donna più felice perché anche se non ci si vedesse per anni sarebbe sempre tutto uguale. E non è vero che tanto c’è skype. Proprio non è vero per niente.

-          -E a me chemmifrega tanto ci sta il MOVIOLOOOONE!-

No, la Malinc-udine è quel magone udinese. Quellarobalì. Quella frase durante il tragitto per l’aeroporto:

“Guarda oggi la luna è offuscata, chissà che cosa vuol dire?”
“Che cosa vuoi che voglia dire?”
“Che c’è umido e foschia…”  Ride malinc-udino

C’è sempre foschia quando c’è la malinc-udine.

Evvai di fazzoletti

A presto.
Causticissima

Si precisa che durante la creazione di questo articolo non è stato tagliato nessun albero (eccimancherebbe che mi mettessi anche a tagliare alberi). Quindi, se devi soffiarti il naso, usa quelli di stoffa. Sì, lo so che ti fanno schifo ma fatti l’abit-udine. La Scottex ringrazia (ironico). Usa le maniche delle magliette CHE è MEGLIO (ecologista).


Sposored by: Puffo brontolone e H & M.



sabato 27 settembre 2014

IL TRIO STRANEZZA. Special Guest: l'uomo che puntava verso sud

S’aggiravano indisturbati in croati fine settimana estivi: Vladiza, Lauriza e Caustiza. Loro tre assieme ad un pesco. Un pesco nano. Sì, l’albero. Una presenza scomoda. Viaggiavano attraversando frontiere mentre Lauriza mandava italianamente a quel paese ogni rappresentante della frontiera croata che chiedeva loro i documenti.

Si dirigevano verso spiagge croate portando con loro la loro italianità: risate, schiamazzi e disturbo della quiete austriaca. Ad attenderli dieci presenze silenziose subito interrotte da tre rumoreggianti.

C: vieni che l’acqua è fresca si sta bene....
Vladiza raggiunse Caustiza, ormai già a dieci metri dalla riva e rivolgendosi verso Lauriza....
V: Luriza dai raggiungici si sta benissimo!

Un austriaco si schiarì la voce già stanco della loro ingombrante italianissima presenza.

Assieme ad altri 8 compagni, abbarbicato sugli scogli, si trovava un austriaco esemplare sdraiato su di un lettino portatile all’ombra di un ombrellone targato SevenUp. Croati i suoi supporti, austriache le sue origini. Era presumibile che colei che gli giaceva al fianco fosse la moglie, sbracatissima donna dall’eleganza discutibile, godeva anch’ella del refrigerio di quell’ombrellone.

Il sole batteva tenue al mezzogiorno di un tiepido agosto ed il mare era fresco come solo i mari contaminati da acque fluviali possono essere. Intorbiditi dai rigagnoli di acqua dolce intenta a mischiarsi all’acqua marina. Sugli scogli un formicaio di granchi si nutriva delle alghe che vi crescevano. Come cinesi, con le loro bacchette si portavano il cibo freneticamente alle boccucce e lui ne era affascinato.

Si alzò col fare di un biologo interessato a comprendere ogni movimento di quella periferia del mare. Nell’intenzione di imparare ogni singolo gesto di quella comunità, se ne stava proteso verso l’avanti come a formare un angolo retto. Questa volta l’ombra gli venne regalata dall’ingombrante cappello da cowboy che indossava. Ma ancora non ne aveva abbastanza di quello spettacolo e oramai accovacciato, continuava a puntare verso sud. Egli era un uomo dai bizzarri costumi, anzi dai costumi inesistenti. Così interessato alla natura da volerne fare parte, praticamente un naturista.

Il trio stranezza, dalle italianissime abitudini, a stento riusciva a distogliere lo sguardo da tale spettacolo. Un interesse verso la natura quasi ricorsivo. Loro guardavano lui che guardava i granchi che probabilmente guardavano le alici. Il tempo scorreva veloce in quel continuo vagare di sguardi ma il trio stranezza poteva ugualmente scandirne lo scorrere con il solo ausilio di quel, seppur timido, sole e dell’austriaca meridiana.

Sì, quella meridiana a loro così utile ed allo stesso tempo così scomoda, lasciata immota alla mercè della gravità che poco indulgente continuava a rendere l’austriaco avventore una continua conferma della precisione del suo popolo. Ad esempio, se qualche sprovveduto avesse potuto chiedersi da che parte fosse il sud, egli gli avrebbe reso quel, seppur piccolo, servizio senza il minimo sforzo. Un austriaco servizietto.

I suoi spettatori però non ebbero cortesi riflessioni riguardo a tutta quella situazione ed anzi pensarono:

Senti bello, punto uno dì a tua moglie o chi per lei, di chiudere le gambe che fa corrente e punto due, sì, noi saremo italiani schiamazzanti ma voi siete nudissimi austriaci e si da il caso che il sud sappiamo benissimo dove si trova.


A presto, 
Causticissima.

giovedì 25 settembre 2014

PORDENONEGREGGE (PNG) – strapuntini ed omonimie


PordenoneLegge, per gli amici PordenoneGregge per via delle difficoltà di deambulazione delle strade in quei giorni, è quell’annuale manifestazione in cui gli autori incontrano i propri lettori e indovinate un po’ dove. Adesso non staremo qui a leggere che Causticissima ha rivisto amico-Bergonzoni e facendo la fila per i biglietti ha visto passare Augias diretto verso il suo signing e Capello e la Tamaro discorrere di poesia e infanzia e Sgarbi fare il cabarettista ad una sedicente Lectio Magistralis. Causticissima ha visto cose che voi lettori… avete visto uguale, lo so. Ecco, queste cose non ce le racconteremo.

Invece, siccome sappiamo che siete affezionati alle disavventure di Causticissima e alle sue digressioni fuori luogo, parliamo di tutt’altro. Consensi della platea.

STRAPUNTINI
Siamo al Teatro Verdi a vedere Sgarbi. Vedere è un eufemismo perché abbiamo beccato i posti sfigati della terza galleria che ci comunicano chiamarsi: strapuntini. Strapuntini, sì, quelli di censura se paghi il biglietto (non era questo il caso) per vedere il nulla. La rappresentazione teatrale dei buchi neri.

Sgrabi parte con il suo cabaret. Dovrebbe parlare de Il Pordenone ma non facciamo i pignoli adesso. Inanella una "perla" dopo l’altra. Il pubblico si sganascia, Causticissima si sganascia ma per gli strapuntini (leggasi imprecazione) Sgarbi è radiofonico. Lo sentiamo e basta.

A quasi un quarto d’ora dalla fine delle trasmissioni comincia a vibrare il cell de LaMadre che, per rendere meno radiofonica la lectio, è ormai seduta sui grandini della scale e dista 3 o 4 metri dalla borsa, ancora posizionata sugli strapuntini (vedi sopra) di tutti (Paganini-non-ripete). Causticissima per evitare di disturbare il prossimo, prontamente recupera la borsa e ne estrae il rumoroso aggeggio. Ella tuttavia è dimentica di stringere ancora nella mano sinistra il suo Causticissimo Telefono che ora nel trambusto CADE rovinosamente scivolando due gradini sotto di lei.

STRAPUNTINI (leggasi, sapete già cosa)

Si girano tutti gli strapuntini e la terza galleria. Causticissima, un po’ imbarazzata, gesticola delle frasi del linguaggio non verbale come a dire:

Scusate.
Capita!
Eh, la gravità, questa sconosciuta!
Oh, rigà, capita a tutti che mi guardate a fare?! Mai visto un telefono che cade?

Gesti che non sortiscono effetti e che anzi si concludono con l’arrivo del responsabile della sicurezza che rimane i seguenti 10 minuti a vegliare sulla persona di Causticissima come a chiedersi: ce la farà a sopravvivere se me ne vado?

Strapuntini (e cosa ve lo dico a fare?)

Segue risata incompresa di Causticissima

CASI DI OMONIMIA
Questa volta siamo a vedere la Tamaro e Capello. Li vediamo da fuori le transenne del capannone dove si tiene l'incontro perché è già pieno ed in ogni caso siamo di passaggio, stiamo andando ad un’altra conferenza. Causticissima si gira e vede confabulare tra loro due megliette gialle: i pastori di PordenoneGregge. Vede solo il ragazzo che ha scritto proprio sul petto ad altezza del cuore: Angelo Custode.

Pretzdavemivi (cit.) Causticissimi pensieri:

Pensa che organizzati che sono qui a PNG!Hanno fatto le magliette personalizzate. 
(pausa di riflessione)
E se lui non fosse venuto? La maglietta a chi sarebbe andata?  
(si sofferma a pensare ad eventuali modalità di risoluzione dell’annoso problema)
Certo che però i genitori a volte sono perfidi eh… a dare i nomi che formano un senso compiuto. Tipo quando lavoravo alle casse, quel tizio a cui avevo chiesto il documento perché doveva pagare con carta di credito: Primo Violino. Che cattivi!
No, aspetta, angelo custode è la funzione. Come l’anno scorso. Annoso problema sì certo...

Seguono grasse risate di Causticissima e la sua combriccola per i continui casi di omonimia riscontrati nelle vicinanze. Uomini e donne, tra le altre cose.

Comunque in realtà ha ragione Noisexplosion: i signori Custode, all’epoca, c’hanno dato dentro di brutto!

A presto,

Causticissima. 

martedì 23 settembre 2014

PS. SF-AMAMI!

Sono le 6.30 e Lauriza si sarà appena svegliata. Vi siete salutate 6 ore e mezza fa precise-precise.

Ti ha sfamata tutto il giorno. Proprio mentre i suoi due specchi ti dicevano che forse-forse è il caso di moderarsi visto che stai assumendo la forma di una pera e quando hai chiesto conferma a LaMadre lei ha dichiarato convinta: “mah… no… ieri eri peggio!”

Chissà. Chissà se Lauriza è stanca. Ieri l’hai tartassata tutto il giorno per cui c’è una buona probabilità che lo sia veramente.

Ieri. Ti ricordi di ieri? Ore 16.00…

L: Ma lo vuoi un caffè?
C: No-no, grazie.
L: Sei sicura?
C: Si dai, sono sicura.
L: Ma sicura-sicura?
C: No, grazie davvero.
L: Io fossi in te un caffè lo berrei. Io (pausa) se fossi in te (pausa convincente) berrei un caffè!
C: Beh vabbè dai… un caffè me lo bevo.
L: E la fetta della torta di Vladiza? Che poi se torna a casa che non l’ho mangiata si offende. Io lo so che si offende (pausa convincente) lui non lo dice ma io lo so che si offende!

Sì, te lo ricordi. E ti ricordi di quando, dopo cena, stava per buttare nello scarico quel fondo di una bottiglia di coca-cola aperta la sera stessa che consapevolmente fino a quel momento non avevi bevuto?! Sì, dai. Ti ricordi di quando l’hai fermata perché ti faceva brutto buttare via qualcosa di ancora ingurgitabile e ti sei smezzata quel fondo di bottiglia con Vladiza peggio degli alcolisti?!

Dico ma: che MIZZICHINA (cit. Lauriza) avevi in mente?

Alle 4, per disperazione, con l’intento di ascoltare musica rilassante, hai inforcato il cellulare e invece di rilassarti sei finita sul canale youtube di nonapritequestotubo che ti rammento, in quel di Roma (concerto di Nutini),  hai consapevolmente schifato solo perché sapevi dei suoi trascorsi con WillWoosh. Sì, WillWoosh, lo stesso che adoravi prima di scoprire che buttava l’occhio ai video di CommunityChannel. Lo stesso che quando glielo hai fatto notare ti ha risposto nell'ordine: che gli dispiaceva tu ci fossi rimasta male, che in un video comunque lo accennava e che sì, traeva “ispirazione” da CommunityChannel ma dirgli che copiava sarebbe stato come dire a Picasso che copiava i Cubisti. Sì, lui-lui. Omiodioerailduemilanove.

Invece adesso, una notte di cinque anni dopo, finisci per spararti tutta la playlist di #bellodemamma di nonapritequestotubo e a ridere il più silenziosamente possibile in modo da non svegliare il tuo coinquilino, perché sai che se ti sentisse penserebbe che stai sognando di ridere e tu, sì tu-tu. Pronto?! Sì, tu. Tu ti sentiresti come quei cani che, distesi su di un fianco, sognando di correre producono quel tipico rumore di zampine che sfregano sul parquette. Ti-Ti-Ti-Ti. E non è Rino Gaetano.

Vite sprecate.

Ripeto: ma che MIZZICHINA (cit.) ti è venuto in mente ieri? Eh?

A presto
Causticissima.


Ps. (pausa) Lauriza (pausa convincente) SF-AMAMI!






mercoledì 20 agosto 2014

FLUSSI DI INCOSCIENZA

Quei momenti in cui dovresti stare zitta invece continui a straparlare e inanelli una dietro l’altra una serie di associazioni mentali che rendono partecipe il tuo interlocutore del tuo stato mentale ovviamente alterato perché hai visto troppe puntate di una mamma per amica e un piccolo seme di Lorelai è germogliato nel tuo modo di esprimerti oppure ha semplicemente  innaffiato il tuo personalissimo seme delle parentesi e delle subordinate e non inserisci la punteggiatura nel discorso perché non avrebbe senso già è tanto che ci metti gli accenti che in questa lingua scarseggiano e non si capisce perché se una parola è tronca li si deve mettere e se invece non lo è no

(prende fiato)

Che hai un serissimo problema con dei cognomi soprattutto quelli friulani che c’hanno una quantità imbarazzante di eccezioni alla regola e tu puntualmente le canni tutte e le tue colleghe ridono per lo show che propini loro giornalmente perché non sai trattenerti e sei il loro giullare di corte inficiando parte della tue immagine di futura professionista volevo dirti:


Basta: hai bisogno di ferie!

lunedì 2 giugno 2014

15 - TETTE SOTTO I GATTI - Episodi di calpestamento



La cosa bella della poesia è che una volta scritta ognuno di noi ci può vedere quello che vuole. La stessa persona in momenti diversi della sua esistenza percepisce le medesime parole attribuendo loro altri significati. Ad esempio ieri si parlava di gatti.

Se chi legge ha avuto un gatto ed è una donna, almeno una volta nella vita avrà provato quel dolore lancinante provocato da un gatto che decide che il tuo seno è il suo selciato: tutto il dannato peso della bestia impresso su di un unico punto. 

Ecco, discorrendo a tavola di questi argomenti di altissima levatura morale ed affrontando un’importante problematica sociale, a Causticissima è venuta in mente questa poesia di Brecht:

[Quello che in te era altura]

Quello che in te era altura
lo hanno spianato
e la tua valle
l’hanno interrata.
Sopra di te passa
una strada comoda.

Ora, già la natura a volte è parca, se in più tu, gatto, spiani le causticissime alture costruendone una strada comoda, stai attento a quello che trovi nella ciotola la prossima volta che pranzi, perché si sa che i casi sono due: o lo fai con dolo o con colpa grave. 

ZAN-ZAN-ZAAAAAAN.

A presto,
Causticissima

mercoledì 28 maggio 2014

16 –TROVA UN MINUTO PER TRARRE, DEVOLVERE, UN GABBIANO E UN GALLO RANDAGIO. Sì, se mi drogassi quello che mi succede dentro, fuori intorno e anche di più, avrebbe una spiegazione più logica.



Quei giorni, di norma coincidenti con il venerdì - ma non necessariamente - in cui ti viene in mente una delle solite canzoni a tema. Quelli in cui la pubblicità della cedrata Tassoni diventa uno spunto su cui riflettere: “quante cose al mondo vuoi fare costruire, inventare? Ma trova un minuto per te”

19.28
L’occhio vitreo di chi ha visto troppe carte oggi, compilato troppi moduli, interpretato troppe leggi e si ritrova a fissare uno schermo continuando a far roteare lo scroll del mouse su e giù quasi ad imitare lo sciabordio delle onde di un oceano presente solo nel suo cervello.
“Sitting on the dock of the bay watching the tide roll away…” e te lo dice anche Otis Redding… “I’m just sitting on the dock of the bay wasting tiiiiiiiiiiiiime”

19.29
In lontananza un gabbiano starnazza.
Macchè lontananza è sulla finestra e tu lavori in mansarda. Vedi anche la sua sagoma mentre si stringe su se stessa tesa nello sforzo dello strillo. Speri solo che sia l’unico sforzo in cui è tesa perché non riusciresti a reggere anche gli altri tipi di sagoma. 
In mente ora hai la pubblicità dello shampoo, “pic the l’oreal - pic the l’oreal:  non brucia gli occhi ed evita i nodi!” E ti fa immediatamente tornare alla memoria quel viaggio a Genova quando tu e le tue cugine eravate ancora bambine e passavate del tempo ad una console, ma non quella di MIMMO AMERELLI. Era una Nintendo-qualcosa su cui girava il giochino di Sailor Moon che quando calciava Sailor Jupiter gridava CAPRIA’ GHIDA’. Che poi chissà che cacchio vuol dire in giapponese CAPRIA’ GHIDA’ ma lasciamo stare.

19.30
Ti svegli dall’ipnosi autoindotta. E’ tutta colpa di quel gallo che, esaurito pure lui, canta a tutte le ore del giorno. Lo hanno adottato i condomini dello stabile adiacente al Causti-ufficio. Prima era un gallo randagio. Ancora incredula non ti spieghi come si sia materializzato li. Come arriva un gallo randagio in centro città sono misteri che non vuoi svelarti. Preferisci immaginartelo ubriaco stile zio Reginaldo degli Aristogatti mentre scappa da un tentativo di omicidio tramite soffocamento da ingestione massiccia di Madeira: oca arrosto con mele e castagne e fegato d’oca annaffiato con Madeira. E noi lo sappiamo che lui, essendo inglese, va affogato nello Cherry, noi conveniamo con lui, ma un gallo randagio dove lo affoghi? Gli animalisti all’ascolto ringraziano. Scroscio di applausi di sostegno.

19.31
Ahaha adesso ridi. Ti è venuta in mente quella battuta di quella volta.. ahah ma ti ricordi? Che ridere. Ridi da sola. Per fortuna è rimasta solo una delle tue colleghe.
Per rinsavire cerchi di darti un tono e con il dorso della mano togli delle inesistenti briciole di gomma da cancellare lasciando delle strisce incancellabili di smalto rosso sul foglio.
“per fortuna che non è un documento ufficiale”  pensi  “ma dovresti decisamente comprarti un top-coat da mettere sopra lo smalto, decisamente!”

19.32
Cerchi di darti un tono... di nuovo! È la tua decima ora di lavoro e cominci a canticchiare. Brutto segno. Davvero brutto segno.
“Andare a casa na-na-na nannna-na” “andare a casa na-na-na nannna-na” “andare a casaaaaaaa nannanannanna”sulle note di I love you baby di Gloria Gaynor che magicamente si trasforma in “A casaaaaa.. i just can’t stop saying: a casaaaaa” pronunciando le parole con uno spiccato accento inglese sulle note di Maria di West Side Story….

19.33
Ti scusi con la tua dirimpettaia che, ormai usa a certe tue abitudini, ride. Le dici che sì, è arrivato quel momento anche oggi: il momento di andarsene.
Una volta uscite l’accompagni alla macchina e durante il tragitto ti escono queste parole:
“trarre è proprio una bella parola. La senti? TRA-R-R-R—R-E! Bella!” annuisci compiaciuta guardandoti intorno e  aggiungi “Un po’ come DEVOLVERE”
Ti chiedi perché, dopo TRARRE ti sia venuta in mente proprio la parola DEVOLVERE.  Che sia un sintomo di altruismo? Che sia un sintomo di dualità? Che sia solo un sintomo?!!!!
Ma la radio interna che ti porti addosso da 26 anni ha già cambiato stazione e canticchi qualcos’altro.

Ecco, quei giorni, di norma coincidenti con il venerdì ma non necessariamente. Se i casi di  - non necessariamente- ti capitano di martedì sera e hai ancora tutta la settimana davanti, beh Causticissima, fatti una domanda.. e la domanda è la seguente:
“quante cose al mondo vuoi fare, costruire, inventare? MA TROVA UN MINUTO PER TE.”

A presto.
Causticissima.

domenica 18 maggio 2014

17 - SUONI DEL SABATO MATTINA



Oggi, all’angolo di Piazza San Giacomo c’è un gruppo di musicisti che suona. Sono in quattro: una viola, una chitarra, una fisarmonica e una batteria. Stanno radunati vicino ad un palo assieme ad un pastore tedesco, rivolti verso un incrocio di strade pedonali: via delle Erbe e via delle Mercerie. La seconda è una delle mie vie preferite. Sarà perché è stretta, sarà perché non è completamente dritta, probabilmente è per via dei lampioni. Sì, è decisamente per i lampioni.

Strano luogo dove mettersi a suonare quando si ha una piazza a disposizione. Invece no, è una cornice meravigliosa. Da quel punto vedo il pittore, ha quasi finito un dipinto che ho visto crescere durante le settimane. Dietro al quartetto si apre la piazza poi i palazzi, la fontana e la chiesa di San Francesco.

Una vecchia bicicletta con i freni dritti è appoggiata ai gradini, il proprietario sarà uno degli attendenti dei 6 (o più) bar che ci sono in piazza. Brulicano di persone che assieme creano un meraviglioso rumore di vita. Si sposa con la musica e le pennellate. Un brusio da sabato mattina. Decido di fare una cosa che non faccio mai, due foto (orribili) col telefono, queste:


Per scrivere mi sono spostata ed ora sto seduta sul secondo gradino della fontana, proprio al centro della piazza. Devo stare attenta a non farmi investire da un nutrito gruppo di bambini che mi girano attorno in senso orario ed antiorario con bici, pattini, monopattini o semplicemente a piedi. Una mamma dice:
“Un minuto è passato!”
“Sì, arrivo, solo un attimo”.

Proprio mentre scrivo un uomo si mette a vociare:
“provate ad immaginare un uomo”  prende fiato e barcolla
“che viene dalla feccia” si prende un minuto prima di ricominciare
“e poi arriva in Piazza, qui, in Piazza San Giacomo.” Barcolla ancora, si sposta verso di me, mi vede scrivere, cerco di non dargli corda e un po’ mi sento incolpa per questo
“un uomo con delle sofferenze. Ma io vi chiedo signori… “Ci pensa ancora su, barcolla di nuovo
“… fate qualcosa di più interessante.” Se ne va sconsolato gridando
“LIBERO ARBITRIO! Io, la mia arte, non ve la porto più. Mi avete bruciato 50 milioni di vecchie lire.”

Indossa un gilet scamosciato, una camicia bianca e un paio di pantaloni beige. Ha la voce roca e catarrosa di chi ha vissuto troppi terremoti assistito dal solo supporto di una bottiglia di alcol. Lo capisco dalla sua postura lordotica. Tiene la voce alta ma non ha l’intensità di sostenere quello che dice. Le sue parole mi sembrano frutto di un pensiero preciso, elaborato centinaia di volte in decine di declinazioni diverse, eppure, quello che ne viene fuori mi è poco chiaro. Mi dispiace per il dolore che prova, è nella fase successiva all’Urlo Dentro. Ma ormai se n’è andato.

La musica, che si era fermata per qualche minuto, magicamente ricomincia. Sembra la scenda di un film, qualcosa che non può essere spontaneo ed invece... I quattro suonano Perheps, perheps, perheps. Dentro di me canticchio “So if you really love me, say yes/ But if you don't, dear, confess/ And please don't tell me/ Perhaps, perhaps, perhaps”

Per scrivere ho bisogno di stringere gli occhi, sono accecata dalla luce di quei giorni nuvolosi in cui la faccia si concentra tutta verso il naso. Butto il capo indietro, quasi a distendermi sui gradini, guardo le nuvole che ci sono in cielo oggi. Una brezza leggera mi volta le pagine del quaderno.

Un bambino mi si è seduto vicino. Sta proprio sopra di me appoggiato al bordo della fontana, sbircia le pagine che sto riempiendo. Me ne accorgo solo ora. Quando se ne va mi guarda fisso negli occhi. A causa della luce, ne riesce a tenere aperto solo uno, ha lo sguardo di chi sta valutando cosa farà da grande. Avrà 6 anni.

Una trentina di turisti, tutti sulla sessantina, vagano stupiti di fronte a dove sono seduta. Le signore sembra vadano tutte dallo stesso parrucchiere. Vedo ancora la forma dei bigodini che fino a qualche ora fa avevano addosso. Le immagino in vestaglia.

Adesso, a fianco al pittore c’è il bambino che mi sbirciava il quaderno. Tiene le braccia composte dietro la schiena in segno di rispetto. Non apre bocca, solo ogni tanto, CU-CU, fa capolino verso il quadro protendendo il busto in avanti. Ma è ora di andare, sono le 12.50. Lo vedo correre verso la madre al bar di fronte. Lei gli infila un gilet imbottito ed assieme ad una sua amica lasciano la piazza.

Ora, a parte appurare che qui a Udine i gilet spaccano di brutto qualsiasi età tu abbia purché tu sia uomo, mi viene solo da aggiungere: la vita è davvero meravigliosa. Mi si riempie il cuore di gioia.

A presto,
Causticissima.