domenica 26 ottobre 2014

CHIAMARE È UMANO. Astenersi facili battute


 Parlare, discorrere, più semplicemente comunicare. In una parola: confrontarsi. Quello che ogni giorno facciamo alzando la cornetta, sorretti da un ormai vetusto modo di dire, è confrontarci. Confrontarci su quello che pensiamo, su quello che abbiamo fatto durante la giornata, su quello che dobbiamo comprare per cena. Un continuo confronto. Un confronto persino sul confronto. Una serie infinita di conversazioni riportate da un orecchio all’altro. Da bocca ad orecchio ad orecchio a bocca. Lo spazio di una telefonata. Il tempo di un saluto. Ma con chi? Prima con chi e come ci confrontavamo?

Dall’invenzione del telefono non sono passati nemmeno due secoli e il creatore del fantomatico apparecchio è ancora oggetto del contendere. Stati Uniti e Italia cercano di tenersi stretta la paternità dell’invenzione che ha irrimediabilmente variato il modo di relazionarsi. Lento ed inarrestabile come l’acqua che scava nella roccia, il telefono e tutti gli annessi e, è proprio il caso di dirlo, i connessi, si sono impossessati delle relazioni umane. Hanno tratto le loro fila di rame per togliere ciò che di umano c’è in una relazione. Si è diventati voci. Voci soliste. Voci umane.

La Voix humaine (voce umana) di Jean Cocteau, grande monologo teatrale, ci ha dato un piccolo assaggio di quanto avrebbe potuto diventare importante il telefono nella nostre vite. “Ti sento lontano. C’è un sacco di gente sulla nostra linea.” Diceva la protagonista, già assillata dall’attesa di una chiamata costantemente interrotta. Un interlocutore perennemente assente aldilà del filo. Alice al di là dello specchio. Una voce, un soffio. È parnassiana la scuola dei telefonisti, quasi immaginifica. Nella nostra società dell’immagine, vi è una sottile linea che divide il rapporto  fra reale ed irreale. L’immagine, a suo modo, è diventata la sostanza del rapporto, eppure, anche la voce mantiene un suo etereo modo di essere pragmatica: il qui ed ora. L’interlocutore perennemente assente aldilà del filo è soprattutto perennemente assente in scena. Cocteau ce lo presenta in un monologo in cui, chi muove le fila del discorso è un Altro, con la A maiuscola, non ben definito. Noi, nella scena non sentiamo cosa sussurra all’orecchio della protagonista eppure lo intuiamo. Costruiamo dentro di noi l’interlocutore che più ci aggrada, l’interlocutore è un libro di cui possiamo fantasticare gli spazi della storia. Forse è questo il regalo: l’intuizione.

Poi Cocteau ci regala un’altra perla, la conversazione in scena diventa ciò che spesso è una chiamata lo scambio delle banalità. I due si chiedono a vicenda come sono vestiti, cosa stanno facendo e chi sta in scena, tronfia della sua azzeccata descrizione,  dichiara “si vede che ho gli occhi al posto delle orecchie”. Ed eccoci qui. Nel fulcro del problema.

Lo spazio dell’immaginazione  in una telefonata.

L’immaginazione, prima di tutto, è il momento fondamentale della relazione umana e del sentire l’altro. La concretezza nelle relazioni è infatti un sentore, una percezione, un’elaborazione dell’altro secondo una serie di esperienze nostre. È il mettersi nei panni degli altri con il nostro bagaglio esperienziale. La difficoltà è  affrontare una relazione, di qualsiasi genere, riuscendo a risultare scevri del nostro vissuto pur continuando ad utilizzarlo per poter capire l’altro. Niente di più difficile.

Ma l’immaginazione è anche il fulcro dell’essere umano che si autorealizza. È il fulcro della domanda che decine di generazioni umane si sono posti: come rendere concreto quello che di reale non ha ancora nulla? Semplice, comunicarlo. Infatti, fin dalla notte dei tempi l’uomo ha sentito il bisogno di lasciare ai posteri le sue conoscenze e come primo atto di altruismo ha dipinto. Dopo aver dipinto ha inciso. L’essere umano ha cominciato rappresentando il suo mondo tramite piccoli disegni e graffiti, che oggi definiamo, “arte rupestre”. Questo iniziale metodo di comunicare ci ha dato la possibilità di percepire come vivevano gli uomini di migliaia di anni fa. Insomma, quello che per noi è arte è prima di tutto comunicazione.

Poi però l’uomo ha voluto diventare più preciso nella sua espressione ed ha inventato la scrittura. È riuscito nell’ardua impresa di tradurre i suoni in simboli che poi diventeranno parole. Dapprima i simboli erano grossolani e descrivevano atti della vita quotidiana, poi i sentimenti che solo infine sono diventati parole composte da altrettanti simboli. La codifica dei suoni in parole e delle parole in sentimenti ha reso l’uomo forte due volte: può comunicare adesso e può comunicare in futuro. Si è reso potenzialmente eterno. Il desiderio di lasciare qualcosa per gli altri, anche se probabilmente dettato da spinte di egocentrismo, ha dato la possibilità ai posteri di conoscere ed evolvere. Ha reso disponibile la conoscenza e l’ha distribuita a chi era in grado di comprenderla. In passato sicuramente il problema era poter far parte della rose di persone che sapeva leggere, oggi il problema è il supporto sul quale viene lasciato il messaggio. Ieri erano le tavolette di pietra, poi le tavolette di argilla, i papiri, la carta, oggi il computer, l’hardware e domani? Come potrà essere eterno il nostro messaggio se il supporto non sarà più compatibile?

Ma la spinta che l’essere umano ha avuto nel voler modificare costantemente il modo di comunicare non è sempre stata dettata dalla desiderio di lasciare traccia di sé. A volte aveva semplicemente bisogno di parlare, magari con persone lontane. Il primo metodo per parlare con le persone distanti è stato il messaggio scritto che ha creato un grandissimo business: la posta. Tramite le lettere ci si è chiariti, si sono create incomprensioni, si sono create attese. Gli uomini hanno aspettato giorni, mesi, forse anni per una sola lettera, una notizia. Ma l’attesa, anche se poetica a volte uccide e crea intorno a sè troppe variabili che la mente non riesce a gestire. È proprio la mancata volontà di attendere, che ci dona il progresso tecnologico: il telegrafo, il telefono, internet, la posta elettronica, il telefonino, l’instant messaging.

Oggi non si chiama. Oggi si chatta. Ci si scambia dei messaggi su diversi supporti, dall’ormai classica chat, a twitter e whatsApp. Siamo diventati muti. Una società di muti; ormai senza voce abbiamo creato una società liquida di muti. La società liquida descritta da Zygmunt Bauman dove ogni carattere della vita umana viene continuamente ridefinito e dove niente è più statico. Le relazioni cambiano e, come un liquido, mutano al variare del contenitore in cui si riversano. Così come la comunicazione. E nella società liquida il messaggio continuo ha generato l’onnipresente assenza e infatti Bauman ci dice:

Non perdi mai di vista il tuo cellulare. La tua tuta da jogging è dotata di una tasca speciale per il cellulare, e  non lasceresti mai quella tasca vuota così come non andresti mai a correre senza le tue scarpette. Di fatto, senza il cellulare non andresti da nessuna parte (<< nessuna parte>> è di fatto lo spazio senza cellulare, oppure con un cellulare fuori campo o con la batteria scarica). E una volta che hai il cellulare al tuo fianco non sei mai fuori o via. Sei sempre dentro – mai però bloccato in un singolo posto. Avvolto in una fitta rete di chiamate e messaggi, sei invulnerabile. Chi ti sta intorno non può estrometterti da nulla, e qualora ci provasse, non cambierebbe nulla di veramente importante.”

Quello che veramente manca all’instant messaging è un luogo da condividere, seppur virtuale. A volte scrivere non basta, bisogna essere presenti per esserci davvero. E allora quale modo migliore per concretizzare? L’immagine. Nel percorso esattamente inverso dei film, prima muti e solo in seguito supportati con l’audio, il telefono ha subito un percorso altalenante ed ha cambiato desinenza: tele-grafo, tele-fono, tele-fonino. Dalla scrittura, all’audio all’instant massaging. Ma all’uomo, costantemente insoddisfatto, non basta, e alla mancanza di uno spazio da condividere risponde con la possibilità di vedersi. Il nuovo problema è un vecchissimo problema: la distanza. La distanza fra le persone, le conversazioni, i confronti. Quello che prima si riusciva a risolvere con una “semplice” lettera, con il dovere di scriverla, la decisione di spedirla ed i calcoli di quando sarebbe arrivata; oggi si risolve in un modo del tutto nuovo.

Quando il problema della distanza si è ripresentato, Skype l’ha colmata. Ci ha riportati faccia a faccia con la realtà, seppur virtuale. Ha creato uno spazio da condividere quasi eliminando quello fisico che ci separa. E allora con Skype possiamo fare colloqui di lavoro, parlare con il nostro innamorato, rivedere parenti ormai lontani, prendere lezioni private di qualsiasi genere.

Skype è la risposta alla lontananza. È la possibilità di vedere. È la luce in fondo alla platonica caverna. È una sagoma. È un palliativo. Un modo per combattere la solitudine.

Sul sito, appunto, Skype così si autodescrive:
“Skype è un software che consente di parlare in tutto il mondo. Milioni di persone e aziende usano Skype per chiamare, videochiamare, inviare messaggi istantanei e condividere file gratuitamente con altri utenti Skype. Puoi utilizzare Skype per tutte le tue esigenze: sul tuo telefono cellulare, sul computer oppure sulla TV abilitata per Skype. Puoi scaricare Skype gratuitamente e, inoltre, è facile da utilizzare.
Con una spesa minima puoi ottenere di più: puoi chiamare i telefoni fissi e cellulari, accedere WiFi, inviare SMS ed effettuare videochiamate di gruppo. Puoi pagare a consumo oppure acquistare un abbonamento, scegli ciò che meglio si adatta alle tue esigenze. E nel mondo aziendale, ciò significa che puoi unire il tuo intero ecosistema di colleghi, partner e clienti lavorando in modo efficiente.”
Skype quindi è, e si autodefinisce, una meravigliosa scatola gratuita e quindi democratica, che convoglia in sé tutti i mondi della comunicazione odierna, la cui regina è la chiamata. Chiamare è umano. Chiamare è l’unico modo che alcune persone hanno di sentirsi un po’ meno, passatemi il termine, onnipresentemente assenti.

Ecco, prima di concludere questo breve excursus sull’evoluzione delle relazioni umane è bene fare un passo indietro, fondamentale per poter capire cosa rappresenta per noi oggi Skype.  Dobbiamo tornare al primo modo che l’uomo ha scelto per comunicare: l’arte. L’arte non è sparita, il suo modo di comunicare è solo diventato più astratto. L’arte, oggi è relazione. È lo specchio. Marina Abramović in The artist is present, ce lo dimostra con un’idea semplice al limite dell’esperimento sociale. Un quadrato di pavimento delimitato da pochi centimetri di nastro adesivo, un tavolo in legno di ridotte dimensioni, due sedie agli estremi e l’artista. Fissa, immobile, cerulea per ore accoglie l’altro, il visitatore all’altro capo della sedia. Gli dedica qualche minuto della sua vita e lo osserva. Ad ognuno regala uno sguardo nuovo, prima di passare al prossimo visitatore si neutralizza. Chiude gli occhi e si prepara al nuovo e poi torna, distaccata ma non distratta, attenta ma non partecipe, la sua è una nuova osservazione partecipante. Una dopo l’altra la fila di persone che aspettano di essere parte dell’opera d’arte, si confrontano silenziosamente con l’artista. Cosa succederà? Quale reazione avrà la Abramović? Niente, non succede niente. Mesi di esercizio per poter stare ore senza nutrirsi, senza assurgere alle proprie funzioni corporali, riuscendo a mantenere ferma l’immagine di sé agli altri. Ed infatti sono gli altri a cambiare, mai l’artista. L’artista è presente e ci comunica quello che noi vogliamo che ci comunichi. Alcuni ridono, alcuni scrutano, alcuni piangono è tutto dentro di loro. Una proiezione dell’IO sull’artista che si mette fisicamente a disposizione. Non è più solo dipinto, graffito, tavoletta, monolite, ideogramma o parola, semplicemente è. L’artista è a disposizione di chiunque decida di sedersi di fronte a lei.

Poi accade l’inaspettato. Arriva un uomo ma non uno qualunque, arriva Ulay. Il grande amore di Marina, il compagno di vita e di lavoro di anni. Non si vedono dal 1988 ed è il 2010. Per separarsi e concludere un percorso artistico e personale, hanno percorso la muraglia cinese, ma non insieme, separati. Uno è partito dal deserto del Gobi e l’altra dal Mar Giallo ed allo stesso tempo hanno percorso a piedi la muraglia cinese per potersi dire addio alla fine di questo lungo viaggio. Un percorso simbolico di quelle che sono due energie estremamente diverse, il femminile ed il maschile, che si ritrovano dopo migliaia di chilometri con il solo intento di stringersi in un ultimo abbraccio e separarsi. Ma quel giorno, al Moma di New  York, lui prende il posto dell’Altro, il famoso altro con la A maiuscola e si siede di fronte all’artista. Due artisti a confronto. Lei, torna dal suo annullarsi per il prossimo spettatore e alla vista timidamente sorride, deglutisce l’amaro boccone, poi ne sente l’agrodolce nostalgia e si scioglie in un pianto di commozione. È qui che accade ciò che non ci si aspettava: Marina lentamente si protende verso Ulay e così fa lui. Di nuovo, dopo 22 anni, si incontrano in un percorso uguale e contrario per finalmente stringersi le mani. Il pubblico del Moma di New York accompagna la scena con uno scroscio di applausi.

Può sembrare che la storia di Marina e Ulay non ci riguardi ma non è così. Loro si sono incontrati dopo tanti anni davanti ad un tavolino di legno, noi ci incontriamo su Skype. Siamo però consapevoli che non ci soddisferà ancora a lungo e in poco tempo troveremo altri modi di relazionarci. Siamo consapevoli che quel tavolino di legno non ci basta. Skype ha accorciato le lontananze ma non le ha eliminate, anche se in quel “noi” di una videochiamata c’è sempre meno distanza.

La lontananza sai è come il vento” diceva Modugno ma per noi la lontananza è quello che ci ha gridato Marina Abramović nel suo silenzio seduta su di una sedia al Moma. Per noi è uno schermo in cui vediamo sia la nostra che l’immagine dell’interlocutore che la Voix humaine celava. Per noi Skype è un’altra risposta ad un problema, non la soluzione.  

Dovremmo trovare il coraggio di protenderci verso il nostro Ulay o l’Altro con la A maiuscola, solo allora l’avremmo trovata e solo allora, anche noi, sentiremo l’applauso.



martedì 7 ottobre 2014

LA MALINC-UDINE

La malinc-udine è l’influenza friulana.  In tutti i sensi.

Non è una malattia rara, anzi, è diffusissima. È un po’ come il mal di testa che prima o poi ce l’hai e non sai bene da dove venga. È quel terribile senso di pesantezza che ti viene quando perdi un amico perché si trasferisce. Perché in Italia non c’è lavoro, perché il capo è stronzo o ti pagano troppo poco e non sai come mandare avanti la baracca. E se ne va il 1° e il 2° e la 3° e una serie infinita di numeri ordinali.

È la valigia di cartone degli inizi 900 quando non c’era da mangiare e si partiva per l’Australia... solo che stavolta c'hai dentro un dottorato e l'iPad. È quel macigno che ti pressa all’ennesima dipartita perché sai che in amore vince chi fugge e tu rimani. Sempre.

La malinc-udine è l’amore da lontano che hai letto in “più lontana della luna” che, diciamolo, sei anche un po’ stufa di dover subire.

-          - Oh tanto c’è skype-
-          - Oh tanto c’è whatsapp-

L’amore da lontano è un’amica che parte e vedi due volte all’anno e quando sta un mese in Italia ti senti la donna più felice perché anche se non ci si vedesse per anni sarebbe sempre tutto uguale. E non è vero che tanto c’è skype. Proprio non è vero per niente.

-          -E a me chemmifrega tanto ci sta il MOVIOLOOOONE!-

No, la Malinc-udine è quel magone udinese. Quellarobalì. Quella frase durante il tragitto per l’aeroporto:

“Guarda oggi la luna è offuscata, chissà che cosa vuol dire?”
“Che cosa vuoi che voglia dire?”
“Che c’è umido e foschia…”  Ride malinc-udino

C’è sempre foschia quando c’è la malinc-udine.

Evvai di fazzoletti

A presto.
Causticissima

Si precisa che durante la creazione di questo articolo non è stato tagliato nessun albero (eccimancherebbe che mi mettessi anche a tagliare alberi). Quindi, se devi soffiarti il naso, usa quelli di stoffa. Sì, lo so che ti fanno schifo ma fatti l’abit-udine. La Scottex ringrazia (ironico). Usa le maniche delle magliette CHE è MEGLIO (ecologista).


Sposored by: Puffo brontolone e H & M.