Parlare, discorrere, più
semplicemente comunicare. In una parola: confrontarsi. Quello che ogni giorno
facciamo alzando la cornetta, sorretti da un ormai vetusto modo di dire, è
confrontarci. Confrontarci su quello che pensiamo, su quello che abbiamo fatto
durante la giornata, su quello che dobbiamo comprare per cena. Un continuo
confronto. Un confronto persino sul confronto. Una serie infinita di
conversazioni riportate da un orecchio all’altro. Da bocca ad orecchio ad
orecchio a bocca. Lo spazio di una telefonata. Il tempo di un saluto. Ma con
chi? Prima con chi e come ci confrontavamo?
Dall’invenzione del
telefono non sono passati nemmeno due secoli e il creatore del fantomatico
apparecchio è ancora oggetto del contendere. Stati Uniti e Italia cercano di
tenersi stretta la paternità dell’invenzione che ha irrimediabilmente variato
il modo di relazionarsi. Lento ed inarrestabile come l’acqua che scava nella
roccia, il telefono e tutti gli annessi e, è proprio il caso di dirlo, i
connessi, si sono impossessati delle relazioni umane. Hanno tratto le loro fila
di rame per togliere ciò che di umano c’è in una relazione. Si è diventati
voci. Voci soliste. Voci umane.
La
Voix humaine (voce umana) di Jean Cocteau, grande monologo teatrale, ci
ha dato un piccolo assaggio di quanto avrebbe potuto diventare importante il
telefono nella nostre vite. “Ti sento lontano. C’è un sacco di gente sulla
nostra linea.” Diceva la protagonista, già assillata dall’attesa di una
chiamata costantemente interrotta. Un interlocutore perennemente assente aldilà
del filo. Alice al di là dello specchio. Una voce, un soffio. È parnassiana la
scuola dei telefonisti, quasi immaginifica. Nella nostra società dell’immagine,
vi è una sottile linea che divide il rapporto
fra reale ed irreale. L’immagine, a suo modo, è diventata la sostanza
del rapporto, eppure, anche la voce mantiene un suo etereo modo di essere
pragmatica: il qui ed ora. L’interlocutore perennemente assente aldilà del filo
è soprattutto perennemente assente in scena. Cocteau ce lo presenta in un
monologo in cui, chi muove le fila del discorso è un Altro, con la A maiuscola,
non ben definito. Noi, nella scena non sentiamo cosa sussurra all’orecchio
della protagonista eppure lo intuiamo. Costruiamo dentro di noi l’interlocutore
che più ci aggrada, l’interlocutore è un libro di cui possiamo fantasticare gli
spazi della storia. Forse è questo il regalo: l’intuizione.
Poi Cocteau ci regala
un’altra perla, la conversazione in scena diventa ciò che spesso è una chiamata
lo scambio delle banalità. I due si chiedono a vicenda come sono vestiti, cosa
stanno facendo e chi sta in scena, tronfia della sua azzeccata descrizione, dichiara “si
vede che ho gli occhi al posto delle orecchie”. Ed eccoci qui. Nel fulcro
del problema.
Lo spazio dell’immaginazione in una telefonata.
L’immaginazione, prima di
tutto, è il momento fondamentale della relazione umana e del sentire l’altro.
La concretezza nelle relazioni è infatti un sentore, una percezione,
un’elaborazione dell’altro secondo una serie di esperienze nostre. È il
mettersi nei panni degli altri con il nostro bagaglio esperienziale. La
difficoltà è affrontare una relazione, di
qualsiasi genere, riuscendo a risultare scevri del nostro vissuto pur continuando
ad utilizzarlo per poter capire l’altro. Niente di più difficile.
Ma l’immaginazione è
anche il fulcro dell’essere umano che si autorealizza. È il fulcro della
domanda che decine di generazioni umane si sono posti: come rendere concreto
quello che di reale non ha ancora nulla? Semplice, comunicarlo. Infatti, fin
dalla notte dei tempi l’uomo ha sentito il bisogno di lasciare ai posteri le
sue conoscenze e come primo atto di altruismo ha dipinto. Dopo aver dipinto ha
inciso. L’essere umano ha cominciato rappresentando il suo mondo tramite
piccoli disegni e graffiti, che oggi definiamo, “arte rupestre”. Questo
iniziale metodo di comunicare ci ha dato la possibilità di percepire come
vivevano gli uomini di migliaia di anni fa. Insomma, quello che per noi è arte è
prima di tutto comunicazione.
Poi però l’uomo ha voluto
diventare più preciso nella sua espressione ed ha inventato la scrittura. È
riuscito nell’ardua impresa di tradurre i suoni in simboli che poi diventeranno
parole. Dapprima i simboli erano grossolani e descrivevano atti della vita
quotidiana, poi i sentimenti che solo infine sono diventati parole composte da
altrettanti simboli. La codifica dei suoni in parole e delle parole in
sentimenti ha reso l’uomo forte due volte: può comunicare adesso e può
comunicare in futuro. Si è reso potenzialmente eterno. Il desiderio di lasciare
qualcosa per gli altri, anche se probabilmente dettato da spinte di
egocentrismo, ha dato la possibilità ai posteri di conoscere ed evolvere. Ha
reso disponibile la conoscenza e l’ha distribuita a chi era in grado di
comprenderla. In passato sicuramente il problema era poter far parte della rose
di persone che sapeva leggere, oggi il problema è il supporto sul quale viene
lasciato il messaggio. Ieri erano le tavolette di pietra, poi le tavolette di argilla,
i papiri, la carta, oggi il computer, l’hardware e domani? Come potrà essere
eterno il nostro messaggio se il supporto non sarà più compatibile?
Ma la spinta che l’essere
umano ha avuto nel voler modificare costantemente il modo di comunicare non è
sempre stata dettata dalla desiderio di lasciare traccia di sé. A volte aveva
semplicemente bisogno di parlare, magari con persone lontane. Il primo metodo
per parlare con le persone distanti è stato il messaggio scritto che ha creato
un grandissimo business: la posta. Tramite le lettere ci si è chiariti, si sono
create incomprensioni, si sono create attese. Gli uomini hanno aspettato
giorni, mesi, forse anni per una sola lettera, una notizia. Ma l’attesa, anche
se poetica a volte uccide e crea intorno a sè troppe variabili che la mente non
riesce a gestire. È proprio la mancata volontà di attendere, che ci dona il
progresso tecnologico: il telegrafo, il telefono, internet, la posta
elettronica, il telefonino, l’instant messaging.
Oggi non si chiama. Oggi
si chatta. Ci si scambia dei messaggi su diversi supporti, dall’ormai classica
chat, a twitter e whatsApp. Siamo diventati muti. Una società di muti; ormai
senza voce abbiamo creato una società liquida di muti. La società liquida
descritta da Zygmunt Bauman dove ogni carattere della vita umana viene
continuamente ridefinito e dove niente è più statico. Le relazioni cambiano e,
come un liquido, mutano al variare del contenitore in cui si riversano. Così
come la comunicazione. E nella società liquida il messaggio continuo ha generato
l’onnipresente assenza e infatti Bauman ci dice:
“Non perdi mai di vista il tuo cellulare. La tua tuta da jogging è
dotata di una tasca speciale per il cellulare, e non lasceresti mai quella tasca vuota così
come non andresti mai a correre senza le tue scarpette. Di fatto, senza il
cellulare non andresti da nessuna parte (<< nessuna parte>> è di
fatto lo spazio senza cellulare, oppure con un cellulare fuori campo o con la
batteria scarica). E una volta che hai il cellulare al tuo fianco non sei mai
fuori o via. Sei sempre dentro – mai però bloccato in un singolo posto. Avvolto
in una fitta rete di chiamate e messaggi, sei invulnerabile. Chi ti sta intorno
non può estrometterti da nulla, e qualora ci provasse, non cambierebbe nulla di
veramente importante.”
Quello che veramente
manca all’instant messaging è un luogo da condividere, seppur virtuale. A volte
scrivere non basta, bisogna essere presenti per esserci davvero. E allora quale modo migliore per
concretizzare? L’immagine. Nel percorso esattamente inverso dei film, prima
muti e solo in seguito supportati con l’audio, il telefono ha subito un
percorso altalenante ed ha cambiato desinenza: tele-grafo, tele-fono,
tele-fonino. Dalla scrittura, all’audio all’instant massaging. Ma all’uomo,
costantemente insoddisfatto, non basta, e alla mancanza di uno spazio da
condividere risponde con la possibilità di vedersi. Il nuovo problema è un
vecchissimo problema: la distanza. La distanza fra le persone, le conversazioni,
i confronti. Quello che prima si riusciva a risolvere con una “semplice”
lettera, con il dovere di scriverla, la decisione di spedirla ed i calcoli di
quando sarebbe arrivata; oggi si risolve in un modo del tutto nuovo.
Quando il problema della
distanza si è ripresentato, Skype l’ha colmata. Ci ha riportati faccia a faccia
con la realtà, seppur virtuale. Ha creato uno spazio da condividere quasi
eliminando quello fisico che ci separa. E allora con Skype possiamo fare
colloqui di lavoro, parlare con il nostro innamorato, rivedere parenti ormai lontani,
prendere lezioni private di qualsiasi genere.
Skype è la risposta alla
lontananza. È la possibilità di vedere. È la luce in fondo alla platonica
caverna. È una sagoma. È un palliativo. Un modo per combattere la solitudine.
Sul sito, appunto, Skype
così si autodescrive:
“Skype è un
software che consente di parlare in tutto il mondo. Milioni di persone e
aziende usano Skype per chiamare, videochiamare, inviare messaggi istantanei e condividere file gratuitamente con altri utenti
Skype. Puoi utilizzare Skype per tutte le tue esigenze: sul tuo telefono cellulare, sul computer oppure sulla TV abilitata per Skype. Puoi scaricare Skype gratuitamente e, inoltre, è facile da utilizzare.
Con una
spesa minima puoi ottenere di più: puoi chiamare i telefoni fissi e cellulari, accedere WiFi, inviare SMS ed
effettuare videochiamate di gruppo. Puoi pagare a consumo oppure acquistare un abbonamento, scegli ciò
che meglio si adatta alle tue esigenze. E nel mondo aziendale, ciò significa che puoi unire il
tuo intero ecosistema di colleghi, partner e clienti lavorando in modo
efficiente.”
Skype quindi è, e si
autodefinisce, una meravigliosa scatola gratuita e quindi democratica, che convoglia
in sé tutti i mondi della comunicazione odierna, la cui regina è la chiamata. Chiamare
è umano. Chiamare è l’unico modo che alcune persone hanno di sentirsi un po’
meno, passatemi il termine, onnipresentemente assenti.
Ecco,
prima di concludere questo breve excursus sull’evoluzione delle relazioni umane
è bene fare un passo indietro, fondamentale per poter capire cosa rappresenta
per noi oggi Skype. Dobbiamo tornare al
primo modo che l’uomo ha scelto per comunicare: l’arte. L’arte non è sparita,
il suo modo di comunicare è solo diventato più astratto. L’arte, oggi è
relazione. È lo specchio. Marina Abramović in The artist is present, ce
lo dimostra con un’idea semplice al limite dell’esperimento sociale. Un
quadrato di pavimento delimitato da pochi centimetri di nastro adesivo, un
tavolo in legno di ridotte dimensioni, due sedie agli estremi e l’artista.
Fissa, immobile, cerulea per ore accoglie l’altro, il visitatore all’altro capo
della sedia. Gli dedica qualche minuto della sua vita e lo osserva. Ad ognuno
regala uno sguardo nuovo, prima di passare al prossimo visitatore si
neutralizza. Chiude gli occhi e si prepara al nuovo e poi torna, distaccata ma
non distratta, attenta ma non partecipe, la sua è una nuova osservazione
partecipante. Una dopo l’altra la fila di persone che aspettano di essere parte
dell’opera d’arte, si confrontano silenziosamente con l’artista. Cosa
succederà? Quale reazione avrà la Abramović? Niente, non succede niente. Mesi
di esercizio per poter stare ore senza nutrirsi, senza assurgere alle proprie
funzioni corporali, riuscendo a mantenere ferma l’immagine di sé agli altri. Ed
infatti sono gli altri a cambiare, mai l’artista. L’artista è presente e ci
comunica quello che noi vogliamo che ci comunichi. Alcuni ridono, alcuni
scrutano, alcuni piangono è tutto dentro di loro. Una proiezione dell’IO
sull’artista che si mette fisicamente a disposizione. Non è più solo dipinto,
graffito, tavoletta, monolite, ideogramma o parola, semplicemente è. L’artista
è a disposizione di chiunque decida di sedersi di fronte a lei.
Poi
accade l’inaspettato. Arriva un uomo ma non uno qualunque, arriva Ulay. Il
grande amore di Marina, il compagno di vita e di lavoro di anni. Non si vedono
dal 1988 ed è il 2010. Per separarsi e concludere un percorso artistico e
personale, hanno percorso la muraglia cinese, ma non insieme, separati. Uno è
partito dal deserto del
Gobi e l’altra dal Mar Giallo ed allo stesso tempo hanno percorso a piedi la
muraglia cinese per potersi dire addio alla fine di questo lungo viaggio. Un
percorso simbolico di quelle che sono due energie estremamente diverse, il
femminile ed il maschile, che si ritrovano dopo migliaia di chilometri con il
solo intento di stringersi in un ultimo abbraccio e separarsi. Ma quel giorno,
al Moma di New York, lui prende il posto
dell’Altro, il famoso altro con la A maiuscola e si siede di fronte
all’artista. Due artisti a confronto. Lei, torna dal suo annullarsi per il
prossimo spettatore e alla vista timidamente sorride, deglutisce l’amaro
boccone, poi ne sente l’agrodolce nostalgia e si scioglie in un pianto di
commozione. È qui che accade ciò che non ci si aspettava: Marina lentamente si
protende verso Ulay e così fa lui. Di nuovo, dopo 22 anni, si incontrano in un
percorso uguale e contrario per finalmente stringersi le mani. Il pubblico del
Moma di New York accompagna la scena con uno scroscio di applausi.
Può sembrare che la
storia di Marina e Ulay non ci riguardi ma non è così. Loro si sono incontrati dopo
tanti anni davanti ad un tavolino di legno, noi ci incontriamo su Skype. Siamo
però consapevoli che non ci soddisferà ancora a lungo e in poco tempo troveremo
altri modi di relazionarci. Siamo consapevoli che quel tavolino di legno non ci
basta. Skype ha accorciato le lontananze ma non le ha eliminate, anche se in
quel “noi” di una videochiamata c’è sempre meno distanza.
“La lontananza sai è
come il vento” diceva Modugno ma
per noi la lontananza è quello che ci ha gridato Marina Abramović nel suo
silenzio seduta su di una sedia al Moma. Per noi è uno schermo in cui
vediamo sia la nostra che l’immagine dell’interlocutore che la Voix humaine celava. Per noi Skype è un’altra
risposta ad un problema, non la soluzione.
Dovremmo trovare il
coraggio di protenderci verso il nostro Ulay o l’Altro con la A maiuscola, solo
allora l’avremmo trovata e solo allora, anche noi, sentiremo l’applauso.